Con l’avvento di Internet negli anni ’90 i professionisti del marketing hanno dovuto ripensare in profondità approcci e strumenti. Non è stato un processo rapido e indolore. Nei suoi primi decenni di esistenza “la rete delle reti” viene infatti percepita come un mezzo estremamente potente ma anche multiforme e misteriosa.

Con il progredire della trasformazione digitale appare finalmente possibile penetrare l’opacità di un pubblico di massa fino a quel momento concepito come tendenzialmente generico. I comportamenti individuali diventano sempre più misurabili – e raccontabili. Inizia la datafication della società contemporanea, che a partire dagli anni Dieci del terzo millennio subisce un’accelerazione impetuosa.

Nella infosfera in cui ci troviamo oggi, il nostro rapporto con le ICT (Information and communication technologies) si complica ulteriormente: le tecnologie digitali non solo vengono concepite dai marketers come un ulteriore canale di comunicazione ma, cosa ancora più importante, come un campo di sperimentazione in cui mettere a punto nuove tecniche e strategie.

Il marketing è morto. Viva il marketing (scientifico)

Viviamo in un habitat ibrido, un ambiente per cui il filosofo Luciano Floridi ha coniato la fortunata espressione Onlife: una società iperstorica dove non è più possibile – e neanche ragionevole – distinguere tra online o offline. In un mondo così fluido aumentano le opportunità di connessione ma anche i rischi di incomunicabilità.

E allora il marketing non può rimanere uguale a sé stesso. Deve cambiare per non esaurire il suo potenziale. E non può limitarsi a utilizzare le enormi quantità di dati a cui ha accesso semplicemente per prendere le misure ai consumatori, pena l’esclusione dagli spazi di conversazione, pubblici e privati, virtuali e fisici. Deve piuttosto mettersi in ascolto e tentare di tradurre i segnali che capta lungo tutto il journey, così da riuscire a intercettare i bisogni inespressi dei consumatori.

In che modo riuscire a catturare una domanda che resta, vaga e incerta, sotto la superficie?

Una risposta, chiara e forte, arriva grazie alle metodologie e le tecniche elaborate nell’ambito del marketing scientifico.

Che cos’è il marketing scientifico?

Il marketing scientifico utilizza il data mining per raccogliere una grande varietà di informazioni, per esempio: dove vivono o lavorano i consumatori di riferimento, quanto guadagnano, quanto tempo trascorrono online, quali siti web visitano e con quale frequenza, cosa acquistano online. I dati vengono analizzati per creare report specifici, ad esempio per profilare con maggiore accuratezza il pubblico principale (o i pubblici, al plurale) su un dato prodotto. Grazie a queste attività di analisi mirate, le campagne di marketing possono essere personalizzate, sviluppate per raggiungere quel particolare segmento di pubblico che statisticamente ha maggiori probabilità di essere interessato al prodotto. Il risultato è un aumento delle probabilità di successo della comunicazione del brand.

Tutti pazzi per gli algoritmi – sì ma quali?

Secondo la filosofia su cui si fonda il marketing scientifico i dati rappresentano certamente un asset prezioso, ma possono produrre valore reale solo se vengono processati nel modo più corretto rispetto a determinati obiettivi di business.

Esistono in effetti delle criticità, che possono compromettere il buon esito di una strategia di marketing. E riguardano due tipi di algoritmi:

  • gli algoritmi che influenzano le attività dei marketer (aggiornamenti SERP dei motori di ricerca e quelli dei social che limitano la copertura organica);
  • gli algoritmi utilizzati dai marketer (spesso etichettati come “di intelligenza artificiale” ma più precisamente appartenenti al campo del machine learning, che effettuano previsioni statistiche a partire da insiemi di dati molto estesi ed eterogenei, anche non strutturati).

Nel primo caso è indispensabile seguire con attenzione tutti gli update e intervenire con tempestività lato SEO, nel secondo caso diventa necessario trovare gli algoritmi più “appropriati”.

Ma, ancora, non è sufficiente.

Pablo Picasso, parlando delle calcolatrici, diceva: “Sono inutili. Possono solo darti risposte” e aveva ragione da vendere. La verità è che senza le domande degli esseri umani, gli algoritmi, semplicemente, non funzionano. E senza il contributo di esperti che conoscono il tipo di dati di cui un marketer ha bisogno, gli algoritmi, anche i più sofisticati e performanti, finiscono per rivelarsi piuttosto inefficaci.